venerdì 4 gennaio 2013

Razzismo nel calcio: le sfumature di un cancro difficile da estirpare





“Pro Patria-Milan sospesa al 26’ per cori razzisti”. La notizia ha fatto, in poche ore, il giro del mondo, tanto che anche qui in Scozia si sono avute le prime reazioni a quanto accadeva allo “Speroni” di Busto Arsizio quasi in tempo reale. E, come al solito, i commenti non sono stati teneri. Tuttavia, è una delle prime volte che sento citare l’Italia come caso virtuoso, intendo ovviamente la reazione dei giocatori del Milan, quando non si parla di cucina o di luoghi da visitare.
Le immagini di KP Boateng che scaglia il pallone verso la curva bustocca e lascia il campo, togliendosi la maglia, seguito a ruota da tutti i suoi compagni, sono state riprese da tutti i siti d’informazione internazionali e dai social network, e una partita “inutile” ha avuto la ribalta che di solito hanno incontri di Champions League.
Lette anche le reazioni a caldo dei governanti del nostro calcio, giusto per farsi inutilmente del male, sentite tutte le pelose indignazioni di facciata e di circostanza, resta ora da fare un’analisi più approfondita della questione e trovare dei rimedi efficaci per estirpare, una volta per tutte, il cancro del razzismo.
Sappiamo, tutti, che il calcio è solitamente un’immagine attendibile della società; il razzismo nel calcio, purtroppo, non è un problema solo italiano. Anche perchè il razzismo non è solo una questione legata al colore della pelle. Le sfumature di questa piaga sono molteplici e hanno radici antiche e difficili da intaccare, anche se si fossero fatti sempre i passi nella giusta direzione.
Prendiamo un esempio, i miei nuovi “compatrioti”. In Gran Bretagna il problema del razzismo esiste, eccome, nonostante le dure leggi che sono state emanate negli anni scorsi. Abbiamo visto tutti gli ultimi episodi, John Terry e Andy Ferdinand, Suarez ed Evra solo per citare i due più eclatanti. 
In Scozia, (quasi) nessuno si sognerebbe di pensare che un uomo con colore di pelle diverso sia “inferiore” (anche se sono documentati episodi, sono fortunatamente limitati). Tuttavia, il problema qui assume sfumature religiose, definite settariane, difficili da interpretare per uno straniero. Ma altrettanto subdole e pericolose. Anche qui, il calcio, come al solito, a fare da grancassa, da valvola di sfogo per tensioni sociali difficili da arginare.
Nonostante, da queste parti, ci siano regole severissime, in vigore dallo scorso anno (vedi qui ).
Tornando a quanto successo ieri, partiamo dal fatto in sè: fatta salva la reazione di Boateng, comprensibile, la partita andava sospesa dal direttore di gara. Così, tanto per non trovare, alla solita maniera italica, un’interpretazione delle regole che va adattata alle situazioni.
Se c’è una regola, deve farla rispettare il garante di questa regola, che è, in campo, solo l’arbitro. 
Quindi, se ci sono delle regole chiare, precise, inderogabili, toccava alle forze dell’ordine intervenire nei modi e con la forza che la legge prescrive. Purtroppo, la domanda legittima sorge spontanea: se anzichè un’inutile amichevole infrasettimanale fosse stata una competizione ufficiale, la gara sarebbe stata sospesa?
Se avesse lasciato il campo un giocatore di colore ugualmente abusato ma di una società di una serie minore, la gara sarebbe stata sospesa?
Di più: se si fosse stati, che so, a San Siro o allo Juventus Stadium, o all’Olimpico di Roma, tutti stadi 5 stelle UEFA a prova di finale europea, si sarebbe anche solo pensato di sospendere la gara e mandare a casa 80mila persone?
No, la mi risposta è una ed una sola, senza sfumature. No. La gara si sarebbe giocata fino alla fine, fatto già accaduto più di una volta, il giocatore che abbandonava il campo tacciato come impulsivo, la società di casa punita con qualche multa in denaro inutile e dannosa, buona solo per rimpolpare le casse della lega.
Il razzismo nel calcio è un problema sociale. Un problema sociale, per essere risolto, ha bisogno dell’intervento dell’autorità. 
In Italia c’è anche un forte problema di credibilità dell’autorità che dovrebbe essere competente in queste situazioni; la giustizia non funziona, la politica ancora meno e chi dovrebbe fare le regole, legifera molto spesso solo pro domo sua. La scuola deve tornare ad essere un luogo di cultura, a 360 gradi, un luogo dove si insegna alle future generazioni come partecipare a questo mondo. La famiglia dovrebbe aiutare la scuola in questo compito e viceversa.
Se non si parte da qui, dalla base, il problema è irrisolvibile.
Siamo di fronte ad una grande sfida. Temo, purtroppo, che la sfida sia troppo grande, perchè, troppo spesso, le persone che dovrebbero vincerla sono troppo piccole.

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